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Matteo Messina Denaro da ragazzo amava sparare, a 14 anni sapeva tenere in mano le armi

Le «sfortune» giudiziarie di Matteo Messina Denaro, in arte Diabolik, per via, raccontano i pentiti, di quei «due mitra che voleva sistemare sul frontale della sua Alfa 164», cominciano nel 1989, quando, figlio dell’allora più celebre don Ciccio, boss di Castelvetrano, incassa la prima denuncia per associazione mafiosa. Già da allora conosciuto in ambienti investigativi, non gode ancora di «fama» pubblica, ma ha preso in mano il mandamento su delega del padre-padrino ammalato che lo avvia alla successione.

Destinato per legami di sangue ad assumere un ruolo in Cosa nostra, ha sempre amato sparare. A 14 anni sa maneggiare le armi, a 18 commette il primo omicidio. «Con le persone che ho ammazzato io, potrei fare un cimitero», confida a un amico. In linea con la strategia stragista dei corleonesi, dei quali, come suo padre, resterà sempre fedele alleato, è coinvolto nelle stragi del 1992 in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Un ruolo, quello di Messina Denaro, emerso solo quando la Procura di Caltanissetta, che ha riaperto le indagini sugli attentati, ha chiesto la custodia cautelare per il boss di Castelvetrano e a ottobre del 2020 lo ha fatto condannare all’ergastolo per i due attentati. Secondo gli investigatori sarebbe stato presente al summit voluto da Riina, nell’ottobre del 1991, in cui fu deciso il piano di morte che aveva come obiettivi i due giudici.

I pentiti raccontano, poi, che faceva parte del commando che avrebbe dovuto eliminare Falcone a Roma, tanto da aver preso parte ai pedinamenti e ai sopralluoghi organizzati per l'attentato. Da Palermo, però, arrivò lo stop di Riina. E Falcone venne ucciso qualche mese dopo a Capaci. Un ruolo importante «Diabolik» lo ha avuto anche nelle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. Imputato e processato è stato condannato all’ergastolo per le bombe nel Continente. La sua latitanza comincia a giugno del 1993.

In una lettera inquietante scritta alla fidanzata dell’epoca, Angela, preannuncia l’inizio della vita da latitante. «Sentirai parlare di me - le scrive, facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue - mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità».

Il padrino trapanese, nella sua carriera criminale, ha collezionato decine di ergastoli. Oltre a quelli per le bombe del Continente, ha avuto il carcere a vita per il sequestro e l'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito rapito da un commando di Cosa nostra, strangolato e sciolto nell’acido nel 1996 dopo quasi due anni di prigionia. Riconosciuto colpevole di associazione mafiosa a partire dal 1989, l’ultima condanna per mafia è a 30 anni di reclusione in continuazione con le precedenti.

Il tribunale di Marsala per la prima volta gli ha riconosciuto la qualifica di capo nel 2012. E una pioggia di ergastoli il boss li ha avuti anche nei processi Omega e Arca che hanno fatto luce su una serie di omicidi di mafia commessi tra Alcamo, Marsala e Castellammare tra il 1989 e il 1992.

In alto, a confronto una immagine realizzata dalla polizia negli anni scorsi, invecchiando al computer il volto del latitante, e la foto segnaletica diffusa dai carabinieri dopo l'arresto

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