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La battaglia delle Egadi a Levanzo e non a Favignana: così Sebastiano Tusa riscrisse la storia

Dal racconto delle ancore sommerse lungo la costa sotto Capo Grosso al ritrovamento del primo rostro nello studio di un dentista di Trapani fino alla ricerche in mare per recuperare gli altri reperti della Prima guerra punica

Tutte quelle ancore lì... strano! Più o meno pensò questo Sebastiano Tusa il giorno in cui a un convegno, durante la storica Settimana delle Egadi, sentì raccontare a uno dei pionieri delle immersioni in Sicilia, l’erede acquisito dei Florio Cecè Paladino, di centinaia di ceppi d’ancora recuperati sotto Capo Grosso, lungo la costa nord-orientale di Levanzo.

L'assenza di approdi

Strano perché? Un archeologo del mare non si meraviglierebbe mai della presenza di ancore in gran quantità nei fondali di un’area da sempre al centro di traffici marittimi come quella delle Egadi. Ma in quel punto non ci sono approdi naturali ed è altamente improbabile che le imbarcazioni vi cerchino ancoraggio. Dunque, o Cecè Paladino si sbagliava - ipotesi impossibile per il giovane studioso, che conosceva bene il subacqueo, amico personale suo e del padre Vincenzo Tusa, l’archeologo degli scavi selinuntini - oppure c’era qualche motivo alla base della presenza di quelle ancore. Ad esempio, pensò Tusa, la flotta romana nascosta lì per intercettare le navi cartaginesi durante la Battaglia delle Egadi, quella che pose fine alla Prima guerra punica. Un’intuizione raccontata a Favignana, nel corso del festival Fishtuna 2021, dalla sovrintendente del Mare Valeria Li Vigni, che conosce bene tutti gli studi del marito Sebastiano Tusa, l’archeologo prematuramente scomparso nell’incidente aereo in Etiopia del marzo 2019.

Tutti pensavano che si fosse combattuto a Cala Rossa

Ma per affermare che Cala Rossa non c’entrava nulla con quella battaglia navale del 241 avanti Cristo, «come si era sempre pensato - spiega Valeria Li Vigni - dal toponimo stesso, attribuito al sangue sparso dai soldati cartaginesi», servivano prove. E Tusa, l’uomo capace di dare scientificità alle fino ad allora pionieristiche ricerche archeologiche subacquee, si mise subito all’opera. Sui testi di Polibio e di altri autori trovò il motivo strategico di quell’appostamento. Amilcare, comandante dell’esercito cartaginese, assediato dai romani, si trovava in quel momento sul monte San Giuliano, sulla cui sommità sorge Erice. Il generale attendeva i rifornimenti per resistere all’assalto. «Mi resi conto - si legge in uno scritto dello stesso Tusa - che la rotta seguita dall’ammiraglio cartaginese Annone doveva essere a nord di Levanzo, sia per giungere più direttamente alla baia di Bonagia, piccola insenatura sulla costa siciliana a nord di Trapani, unico approdo da dove sarebbe stato possibile ascendere al monte e congiungersi con i compatrioti, sia per eludere il blocco navale romano che controllava la costa siciliana tra Lilibeo e Drepanum», ovvero Marsala e Trapani. Era una tesi non solo suggestiva, ma piuttosto concreta. Bisognava però trovare dei reperti che testimoniassero che nel mare a nord di Levanzo - e non a Cala Rossa, il più noto dei luoghi turistici dell’isola maggiore, Favignana - si fosse combattuta la storica battaglia che diede fine alla prima guerra punica. «Sebastiano - ricorda la moglie - si chiedeva sempre cosa sarebbe stato dell’Italia se avessero vinto i cartaginesi». Non lo sapremo mai, perché vinsero i romani, forti di navi belliche attrezzate per speronare e affondare le imbarcazioni nemiche grazie anche ad un’arma nascosta, il rostro, quella pesante punta simile al becco dei rapaci che sulle navi antiche veniva collocata a pelo d’acqua per colpire i nemici. Li avevano anche i cartaginesi, i rostri, ma quelli romani erano più belli, più forti e probabilmente più numerosi.

Il rostro trovato dal dentista

Insomma, dovevano esserci dei rostri in fondo al mare di Levanzo. Ma dove cercarli esattamente? L’occasione per risolvere il rebus arrivò dalla scoperta del primo rostro, quello che oggi è esposto al museo Pepoli di Trapani. Un ritrovamento atipico, non in fondo al mare, ma nello studio di un dentista trapanese, che l’aveva avuto in dono da un pescatore, in cambio di una prestazione professionale. «In quell’occasione - racconta Valeria Li Vigni - Sebastiano svolse un grande lavoro di intelligence assieme al Nucleo di tutela dei beni culturali dei carabinieri sceso da Roma». Il dentista si convinse a consegnare il reperto e rivelò il nome del pescatore, che a sua volta indicò con precisione in quale punto quel rostro era stato tirato su dalle reti. Era proprio il mare a nord di Levanzo, come aveva intuito Sebastiano Tusa, che venne nominato curatore giudiziario del rostro numero 1 della battaglia delle Egadi.

Le ricerche in mare

Era la fine degli anni Novanta ed era soprattutto l’inizio dell’operazione di riscrittura di una pagina di storia. Scattarono le ricerche delle altre tracce della battaglia, prima con i subacquei, poi con il centro sommozzatori dei carabinieri e con il loro Pluto, un veicolo collegato da un cavo, infine con gli americani della Rpm Nautical Foundation e con il loro robot ultramoderno, che oggi viene comandato da remoto con un joystick, quasi fosse un meraviglioso videogioco. Il supporto degli Stati Uniti non ha impoverito la Sicilia, anzi. «Nel 2004 era stata istituita la Soprintendenza del Mare e Sebastiano volle che la convenzione con gli americani prevedesse che tutti i dati raccolti restassero patrimonio proprio della Soprintendenza», spiega Valeria Li Vigni, che oggi si trova a gestire l’enorme lavoro di ricerca svolto negli anni con modalità sistematiche e non più estemporanee.

Venticinque i rostri recuperati

Così, gli ultimi due rostri riemersi qualche giorno fa hanno portato a 25 il numero complessivo, quasi tutti di navi romani, ma qualcuno cartaginese. Anzi, l’ipotesi che uno dei due ripescati il mese scorso sia di nave punica è molto fondata, perché poco rifinito, anche se per averne certezza bisognerà attendere la fase di desalinizzazione e ripulitura. «I rostri romani sono vere opere d’arte - continua la sovrintendente del mare - e recano in rilievo le iscrizioni con i nomi dei questori che ne approvarono la realizzazione». Un certificato. insomma. «E ci sono anche le decorazioni, a volte un elmo, a volte una Nike. Sui rostri cartaginesi è leggibile invece qualche frase di supplica al Dio Baal».  Suppliche che non hanno impedito la sconfitta. La storia la fanno i vincitori, si dice così. Ma Sebastiano Tusa ha voluto che di quella battaglia di più di duemila anni fa fosse conosciuta l’intera verità. Anche a costo di tornare tutti a chiederci: ma perché si chiama Cala Rossa, se il mare è turchese?

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