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Messina Denaro, dalle stragi alla mafia degli affari

L’evoluzione criminale dell’ultimo padrino di Cosa nostra. La cupola si era dissolta dopo la cattura di Riina nel 1993 e lui era rimasto solo il capo delle cosche trapanesi

Combo con 8 foto o identikit di Matteo Messina Denaro. Le prime quattro (prima riga) sono le ultime sue foto disponibili, tutte precedenti al 1993, anno da cui ha cominciato la sua latitanza. Nella seconda riga i tre identikit diffusi rispettivamente nel 2007, 2011 e 2014 dalle forze dell'ordine. L'ultima foto è stata scattata il giorno dell'arresto, il 16 gennaio 2023. ANSA   

Con Matteo Messina Denaro esce di scena l’ultimo esponente della mafia stragista e si chiude la stagione più terrificante di Cosa Nostra. Quel romanzo criminale era uscito dalla dittatura corleonese di Totò Riina e Bernardo Provenzano. All’uno e negli ultimi tempi all’altro, che nei pizzini chiamava «Zio» con tanto di maiuscola riverente, Messina Denaro era così legato da essere considerato il loro erede naturale. Ma intanto anche la mafia stava cambiando pelle e struttura: non era più l’organizzazione unitaria e verticistica descritta da Tommaso Buscetta ma una federazione di gruppi con un forte radicamento territoriale.

La cupola si era dissolta dopo la cattura di Riina nel 1993 e Messina Denaro era rimasto solo il capo delle cosche trapanesi. Benché fosse un fedele estimatore della «tradizione», rappresentata dal padre Francesco morto da latitante nel 1998, il boss era anche un lucido traghettatore, il protagonista di una evoluzione che cercava di lasciarsi la violenza alle spalle per dedicarsi agli affari. Ma i cambiamenti, come ha avvertito la Commissione antimafia, hanno di fatto mantenuto a Cosa Nostra un’intatta «capacità di rigenerazione», un «ampio consenso sociale» e una grande capacità di intimidazione. Di questo processo, di cui Provenzano era stato un anticipatore, Messina Denaro era stato un vero protagonista. Aveva archiviato le condanne per le stragi di Capaci e via D’Amelio, per gli eccidi del 1993 e per la barbara uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, l’unica barbarie di cui avvertiva un forte peso morale tanto da ammettere il consenso al sequestro ma non alla soppressione del bambino. E aveva quindi proiettato la sua influenza in molti settori economici e ambiti politici, governava la distribuzione delle risorse e l’attribuzione degli appalti e degli incarichi alla cerchia dei fedelissimi. Si era soprattutto circondato, come ha osservato il procuratore Maurizio de Lucia dopo la cattura del boss il 16 gennaio 2023, di tanti esponenti della «borghesia mafiosa» che gli assicuravano ogni copertura: il geometra Andrea Bonafede, del quale aveva adottato la nuova identità, il medico Alfonso Tumbarello e altri personaggi che tenevano un piede nel mondo delle professioni e un altro nelle logge della massoneria.

In queste condizioni Matteo Messina Denaro si dedicava agli sfarzi, ai piaceri della vita e perfino al gusto ostentato delle buone letture. A rendere meno triste la sua trentennale latitanza, tra cambi di covi e fughe improvvise, era soprattutto una rete di conoscenze e relazioni femminili. Il caso più emblematico non è quello della vivandiera che gli portava da mangiare nell’ultimo covo di Campobello di Mazara ma quello che racconta la storia privata tra Matteo e la maestra Laura Bonafede, poi arrestata, con la quale si incontrava anche tra i banconi di un supermercato facendosi beffardamente riprendere dai sistemi di videosorveglianza.

Tra tanti amici, complici e fedeli compagni di strada alla fine si fidava soprattutto di una donna: la sorella Rosalia conosciuta come Rosetta. Era lei a gestire, come una meticolosa ragioniera, la cassa di famiglia e la rete di trasmissione dei «pizzini» in cui aveva il nome in codice di «Fragolone». Era lei per Matteo, il fantasma senza volto, il riferimento certo ma alla lunga si è rivelato anche il suo punto più critico: tra i mille pizzini del fratello custoditi come sacre reliquie ce n’era uno che era una sorta di diario clinico di un malato oncologico. E da lì è partita l’indagine culminata con l’arresto.

Fine di una storia e fine di un uomo che viveva nel mito di se stesso con il covo riempito delle immagini cult del Padrino cinematografico e di oggetti simbolici ispirati ai vaneggiamenti di un potere senza limiti e senza grazia. Prima di congedarsi dalla vita, Messina Denaro ha dovuto arrendersi a uno Stato che non riconosceva nel suo manifesto politico sicilianista rintracciato in casa della sorella e se ne va senza lasciare eredi riconosciuti: tutti fatti fuori dalle confische e dagli arresti che hanno fatto terra bruciata attorno all’ultimo padrino di Cosa Nostra.

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