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L'ombra di Messina Denaro a Milano: 11 arresti, ma il gip smonta la tesi di una federazione mafiosa

Paolo Aurelio Errante Parrino secondo gli inquirenti, sarebbe stato il «punto di raccordo» tra il «sistema» e l'ex boss di Castelvetrano

Tra gli oltre 150 indagati nell’inchiesta della Dda di Milano sul «sistema mafioso lombardo» figura anche Paolo Aurelio Errante Parrino, che, secondo gli inquirenti, sarebbe stato il «punto di raccordo» tra il «sistema mafioso» in Lombardia, ossia il presunto accordo tra le tre mafie, e Matteo Messina Denaro, morto lo scorso settembre. Parrino per gli inquirenti avrebbe trasferito al boss «comunicazioni relative ad argomenti esiziali» mentre era latitante. Lo si legge nell’ordinanza del gip di Milano Tommaso Perna che, però, ha respinto oltre 140 richieste d’arresto, tra cui quella di Parrino.

Parrino, secondo la Dda milanese, sarebbe il «referente nell’area lombarda della Provincia di Trapani, con specifico riferimento al Mandamento di Castelvetrano», riconducibile «all’ex latitante Messina Denaro», e uno dei componenti «del sistema mafioso lombardo» oltre che già condannato in passato per associazione mafiosa.

Sarebbe stato Parrino, secondo le indagini dei carabinieri, «il punto di riferimento del Mandamento di Castelvetrano nel Nord Italia», mantenendo «i rapporti con i vertici di Cosa Nostra, in particolare, con Messina Denaro», latitante «sino al 16 gennaio 2023, rappresentando il punto di raccordo tra il sistema mafioso lombardo e l’ex latitante, a lui trasferendo comunicazioni relative ad argomenti esiziali per l’associazione». Avrebbe anche mantenuto e «curato i rapporti con la famiglia dell’ex latitante, vertice di Cosa Nostra», occupandosi di «qualsiasi necessità del nucleo familiare da soddisfare in Nord Italia, compreso un adeguato supporto logistico in caso di bisogno».

Per il gip nessun «patto» tra Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Camorra in Lombardia

Non c'è nessun «patto» tra Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Camorra in Lombardia, dove stamane i carabinieri di Milano e Varese hanno eseguito undici ordinanze di custodia in carcere e il sequestro di beni per un valore complessivo di oltre 225 milioni di euro. Lo precisa il gip di Milano Tommaso Perna, che ha respinto oltre 140 richieste di arresti per altrettanti indagati. Il giudice, infatti, ha disposto il carcere solo per 11 persone, ma non per associazione mafiosa e solo per altri reati. La Dda, comunque, ha deciso di chiudere le indagini, contestando sempre «l'alleanza» tra le tre mafie e annunciando di fare ricorso al Riesame per le richieste di custodia cautelare respinte. Di «alleanza» tra le mafie in Lombardia aveva parlato tra l'altro, lo scorso agosto, anche il procuratore di Milano Marcello Viola nel corso di un'audizione alla commissione antimafia. Recenti inchieste, aveva detto, «hanno evidenziato accordi stabili e duraturi tra 'ndrangheta, criminalità siciliana e quella di stampo camorristico», fenomeno questo «particolarmente allarmante in quanto» dà solidità a «una rete trasversale» che opera soprattutto nel «settore del riciclaggio». Dinamiche mafiose che, aveva spiegato Viola, «definiscono un network che si salda su interessi concreti». La nuova inchiesta, condotta dai carabinieri e coordinata dal pm della Dda Alessandra Cerreti, riguardava proprio questo presunto «patto» tra mafie, ma le accuse di associazione mafiosa sono state tutte smontate nell'ordinanza del gip Perna. La Dda milanese ora punta sul Riesame e proverà a portare a processo gli oltre 150 indagati, dopo aver chiuso le indagini con gli atti notificati oggi, contestualmente all'esecuzione degli 11 arresti. Nell'ultima relazione semestrale la Direzione investigativa antimafia aveva scritto, tra l'altro, che in Lombardia i «sodalizi mafiosi sarebbero scesi a patti per assicurare alle aziende affiliate una sorta di rotazione nell'assegnazione dei contratti pubblici, pilotando le offerte da presentare e contenendo anche le offerte al ribasso degli oneri connessi».

L'inchiesta della Dda milanese: coinvolti trapanesi e un canicattinese

Nel lungo elenco di persone indagate nella maxi inchiesta sul sistema mafioso in Lombardia figuravano anche personaggi della provincia di Trapani. Gli esponenti mafiosi della provincia di Trapani, collegati al mandamento di Messina Denaro e coinvolti nell'inchiesta sono: Paolo Aurelio Errante Parrino, già condannato per associazione mafiosa, Bernardo Pace detto «Dino», Michele Pace, Domenico Pace, Rosario Abilone, Giovanni Abilone, Diego Cislaghi. Paolo Errante Parrino detto «zio Paolo» è cugino di Matteo Messina Denaro. Ma c'erano anche quelli di Giuseppe «Ninni» e («zio») Stefano Fidanzanti, figlio e fratello del superboss Gaetano, «don Tano» a capo dei corleonesi, morto undici anni fa, i Rinzivillo ei catanesi Mazzei. Insomma i giudici ritenevano di avere le prove di una grande alleanza tra Cosa Nostra, ‘ndrangheta e Camorra assieme, a far affari in Lombardia: «Un network criminale evoluto», con «l’esistenza di un accordo stabile e duraturo tra le diverse componenti: calabrese, siciliana e romana, espressione di un sistema di tipo confederativo».

«Si tratta di una complessa attività di indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano che ha riguardato un contesto criminale operante prevalentemente nel territorio lombardo, in particolare, tra la città di Milano e la sua provincia, la città di Varese e la sua provincia, formato da soggetti legati alle tre diverse organizzazioni di stampo mafioso cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra», si legge in una nota degli investigatori. L'indagine però stamane ha portato in carcere solo undici persone. Va rilevato che lo scenario, «supportato da granitiche acquisizioni raggiunte tramite un monitoraggio tecnico massificato»”, è stato in buona parte smontato dal giudice per le indagini preliminari che di fronte a 154 richieste di misure ha ritenuto di riconoscerne per l'appunto solo 11 (di cui 8 aggravanti mafiose) con gli altri 143 indagati a piede libero. Nel frattempo una persona è morta e gli indagati sono dunque 142.Il traffico di droga è centrale nel sistema mafioso lombardo. Assieme a Massimo Rosi, l’altra mente del traffico di stupefacenti, anche lui in manette, è Gioacchino Amico. Figura centralissima: nato a Canicattì, nell’Agrigentino, 37 anni fa, espressione però del clan camorristico dei Senese. Del narcotraffico «Amico e Rosi sono i due capi promotori, ne pianificano le strategie, decidono quanta merce comprare, concordano il prezzo, mantengono i rapporti con i fornitori». Non solo. Amico manteneva rapporti diretti con l’uomo di fiducia del superboss Matteo Messina Denaro, Antonio: «Lo ha incontrato varie volte in Sicilia, anche a Campobello di Mazara a poche decine di metri da quello che risulterà essere il covo del superboss». Amico mette a disposizione dell’associazione gli uffici della Servizi integrati a lui riconducibili per lo svolgimento delle decine di summit documentati nell’indagine. Ma Amico è anche uomo di relazioni, quello che «mette a disposizione dell’associazione la propria sfera relazionale politico istituzionale ed imprenditoriale, accrescendo ‘il capitale sociale’ dell’organizzazione, mirando all’infiltrazione del tessuto economico-sociale lombardo», si occupa del reimpiego dei profitti illeciti acquisendo aziende private con una rete di prestanome.

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