Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Da Virga a Messina Denaro, l'ex sottosegretario D’Alì era al servizio della mafia di Trapani

Ecco le motivazioni della condanna confermata dalla Cassazione a sei anni per l’ex senatore, ritenuto colpevole del reato di concorso esterno in associazione mafiosa

Antonio D'Alì

Un politico al servizio di Cosa nostra. È questa la sintesi da trarre dalle 24 pagine che contengono la motivazione per la quale lo scorso dicembre la Cassazione - prima sezione, presidente Mogini, relatore Vasa - rigettando i ricorsi della difesa, sottoscritti dagli avvocati Giovanni Aricò e Arianna Rallo, ha confermato la condanna a sei anni per l’ex senatore ed ex sottosegretario all’Interno, Antonio D’Alì, ritenuto colpevole del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

A chiedere il rigetto dei ricorsi era stato anche il sostituto procuratore generale Perelli. Da privato cittadino, non un quisque de populo ma un imprenditore affermato, esponente di spicco della Banca Sicula, uno degli istituti più importanti della Sicilia, ma anche da uomo delle istituzioni, senatore dal 1994, presidente di commissioni parlamentari, sottosegretario al Viminale, sede del ministero degli Interni, dal 2001 al 2006, per i giudici è stato a disposizione di Cosa nostra, di quella mafia che aveva come riferimento i potenti corleonesi capeggiati da Totò Riina e nel trapanese dai Messina Denaro, padre e figlio. Francesco e Matteo Messina Denaro erano i suoi campieri nel latifondo di contrada Zangara di Castelvetrano. Un rapporto alla luce del sole tra D’Alì e i Messina Denaro. Non è un caso che ad occuparsi del processo all’ex senatore siano stati i pubblici ministeri impegnati nella ricerca del latitante Messina Denaro, Paolo Guido e Andrea Tarondo. Un processo che ha visto la pronuncia di due sentenze di prescrizione e assoluzione, bocciata dalla Cassazione che ha annullato facendo celebrare nuovamente il processo di secondo grado, stavolta chiuso con la pronuncia della responsabilità penale dell’imputato. La Cassazione a questa pronuncia ha messo il sigillo. Un giudizio pesante, che si basa anche sulla dichiarata attendibilità del collaboratore di giustizia Nino Birrittella, un imprenditore trapanese che fece parte della cupola mafiosa trapanese quando questa dalle mani di Vincenzo Virga dopo l’arresto di questi passò a Francesco Pace, altro imprenditore. E la Cassazione si sofferma sul sostegno che all’imprenditoria mafiosa è giunto da D’Alì, anche quando sedeva al Viminale. Tra le vicende inquadrate quella del trasferimento improvviso da Trapani ad Agrigento del prefetto Fulvio Sodano nel luglio del 2003. Quel trasferimento fu spinto da Cosa nostra, l’allora sottosegretario si adoperò per concretizzarlo « per compiacere i piani di egemonia economica del capomafia di Trapani». Progetti di predominanza mafiosa che avevano come oggetto far fallire la Calcestruzzi Ericina, un’azienda che era stata confiscata al capo mafia Vincenzo Virga, e che finita sotto amministrazione giudiziaria era riuscita a ritagliarsi uno spazio nel settore della produzione e vendita di calcestruzzo, azione che aveva trovato il sostegno del prefetto Sodano.

Così come nel processo è emerso il tentativo mafioso di far rimuovere da Trapani l’allora capo della Squadra Mobile Giuseppe Linares, oggi direttore del Servizio Centrale Anticrimine. Per i giudici Antonio D’Alì ha stretto con Cosa nostra un patto politico-mafioso grazie al quale il clan gli ha garantito un appoggio elettorale, uno scellerato accordo con la mafia. Dalla vicenda del riciclaggio di 300 milioni di vecchie lire attraverso la vendita di un suo lotto di Zangara al prestanome dei Messina Denaro, il gioielliere Francesco Geraci, che raccontò come i soldi vennero restituiti da D’Alì al clan mafioso, a quelle per sostenere un cartello di imprese che partecipavano ad un patto territoriale. A mettere nei guai D’Alì anche la testimonianza dell’ex moglie Maria Antonietta “Picci” Aula, che ha confermato l’esistenza di un telegramma fatto arrivare dal carcere dal figlio di Virga nel dicembre 1998, era una sorta di rimprovero per delle disattenzioni che D’Alì aveva riservato alle sorti del clan mafioso. Poi c’è la testimonianza di don Ninni Treppiedi, che per un periodo, mentre D’Al’ era sottosegretario, frequentò la casa del politico, interrompendo però presto quella frequentazione: per i giudici i fatti riferiti da Treppiedi hanno fornito riscontro alle dichiarazioni del Birrittella. È stato invece il pentito mazarese Vincenzo Sinacori a spiegare meglio il rapporto tra i Messina Denaro e l’ex senatore «che io sappia il Virga, se aveva bisogno di qualcosa dai D’Alì - aveva detto Sinacori - si rivolgeva ai Messina Denaro perché era risaputo che i Messina Denaro con i D’Alì erano in buonissimi rapporti». Antonio D’Alì si è costituito nel carcere di Opera a Milano subito dopo la conferma della sua condanna pronunciata il 13 dicembre 2022 dalla Cassazione che lo scorso 18 settembre ha depositato le relative motivazioni.

 

Tag:

Persone:

Caricamento commenti

Commenta la notizia