Stanze segrete cercansi per portare alla luce, come pazienti archeologi, i tesori del boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro, arrestato a Palermo lunedì 16 gennaio. E nell’inchiesta sulla sua latitanza si aprono, di minuto in minuto, nuovi capitoli densi di particolari sul suo stile di vita oltre la legge e sugli «amici» disposti a garantirgli quella libertà dorata. Ieri pomeriggio è stato arrestato pure il prestanome dell’ormai ex primula rossa, l’alias cinquantottenne Andrea Bonafede, il geometra che si era spogliato della sua carta d’identità, di fatto della sua esistenza, per darla al padrino e garantirne salute e lunga resistenza al vertice della organizzazione criminale. «Compito di estrema fiducia che non si può che dare ad un fedelissimo, pienamente affiliato e non certo ad un conoscente casuale al quale ci si rivolge durante un incontro fortuito», scrive il gip Alfredo Montalto nella ordinanza che manda il factotum in carcere con l’accusa di associazione mafiosa. «Il boss non avrebbe potuto rivolgersi ad altri che ad una persona pienamente inserita nel contesto associativo per avere quel prolungato apporto e sostegno che è stato compiutamente delineato nelle indagini - scrivono i pm nella richiesta di arresto -. Solo un associato che godeva della totale fiducia del latitante poteva infatti essere incaricato di compiti così delicati» .
Questione di fiducia
Dopo la cattura, Bonafede aveva fatto parziali ammissioni ma dando una versione ammorbidita dei suoi rapporti con Messina Denaro. Ma l'acquisto dell'abitazione, la cessione di un documento d'identità e della tessera sanitaria, l’acquisto dell’auto risalgono al 27 luglio 2020 e non certo a sette mesi fa, come raccontato. «Bonafede ha fornito all’associazione mafiosa un contributo continuativo di estrema rilevanza che va ben oltre quello pacificamente attribuito all'autista - scrive il gip -. Ruolo che, come insegna l'emblematica vicenda di Salvatore Biondino arrestato insieme a Totò Riina nel gennaio del ‘93, è un incarico che viene assegnato a persone di massima fiducia». L'esperienza dell'arresto di tutti i più importanti latitanti di Cosa nostra, è la riflessione dei giudici, insegna che «i soggetti dell'organizzazione, per evidenti ragioni di sicurezza personale, tendono ad escludere dalla conoscenza del covo dove da latitanti si rifugiano persino la gran parte degli associati, limitando questa conoscenza ad una cerchia più ristretta». È avvenuto per Riina, il cui nascondiglio era ignorato persino da Provenzano, per lo stesso Provenzano, per Brusca, per i fratelli Graviano e per Bagarella». Insomma, non è minimamente credibile che il latitante più ricercato d'Italia si sia a un certo punto affidato ha un soggetto incontrato occasionalmente, non affiliato e che non vedeva da moltissimi anni per coprire la sua identità.
L’inserzionista d’armi
Messina Denaro l’invincibile, l’inossidabile magister degli affari del Trapanese e non solo. Se per un attimo qualcuno dei fedelissimi aveva avuto il timore che avesse perso il suo afflato criminale, c’è un biglietto ritrovato a chiarire il principio. «Io sono qua... come prima e più di prima», si legge in un'intercettazione dell’operazione Hesperia che a settembre scorso ha sgominato (35 arresti) le cosche legate a Diabolik. E sempre sui pizzini all’esame degli inquirenti della Dda: uno dei numeri di telefono trovato tra appunti e biglietti dell’autista Giovanni Luppino sarebbe riconducibile a un inserzionista trapanese che vende armi usate online. In uno degli annunci su un sito internet si legge «vendo per conto di un amico carabina semiautomatica, proiettili e cartucce». Le offerte risalgono a qualche settimana fa. A chi appartiene quel fucile?
La Giulietta
Anche il figlio di Giovanni Luppino è stato sentito (ieri pure una perquisizione in un garage di sua proprietà) nell’ambito delle indagini sulla rete che ha favorito la latitanza dell’uomo finora più ricercato d’Italia che se ne andava in giro in tutta tranquillità: solo dopo la sua cattura e la diffusione della sua foto, il concessionario d’auto Giovanni Tumminello lo ha riconosciuto: «La Giulietta fu pagata con metodo tracciabile dal boss che la scelse personalmente con una trasferta a Palermo, una persona garbata», ha detto ai giornalisti dopo l’interrogatorio reso ai carabinieri che conducono le indagini coordinate dal procuratore capo Maurizio de Lucia e dall’aggiunto Paolo Guido. Quindi, niente contanti ma bonifico o assegno. Il veicolo, del quale sono stati trovati i documenti nell’ultima casa di Messina Denaro a Campobello di Mazara, era intestato alla madre del factotum del boss, il geometra Andrea Bonafede. Ed esami irripetibili erano attesi dalla mattinata in uno dei covi alla presenza del legale del capomafia, Lorenza Guttadauro. I geo radar hanno scandagliato le pareti alla ricerca di eventuali cunicoli segreti nelle diverse abitazioni frequentate dal boss in un «fazzoletto» di pochi chilometri, da almeno tre anni.