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Trapani, la condanna di D'Alì: nelle motivazioni i rapporti con i Messina Denaro

Antonio D'Alì

Sono riassunte in 138 pagine le motivazioni con le quali i giudici della corte d’Appello di Palermo hanno condannato l’ex sottosegretario all’Interno di Trapani, Antonio D’Alì, a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. In quelle pagine i giudici riassumono i rapporti consolidati con i Messina Denaro, dal vecchio don Ciccio, campiere dei terreni della famiglia D’Alì, al figlio Matteo, il superlatitante. L’ex senatore di Trapani è stato sottosegretario all’Interno dal 2001 al 2005.

Così scrivono i giudici: «D’Alì, ha manifestato la propria disponibilità verso (o vicinanza a) Cosa Nostra dai primi anni ‘80 del secolo scorso fino agli inizi dell’anno 2006 e comunque non vi è prova di una condotta di desistenza dell’imputato incompatibile con la persistente disponibilità ad esercitare le proprie funzioni ed a spendere le proprie energie in favore del sodalizio mafioso».

Il provvedimento del collegio presieduto da Antonio Napoli, consigliere Fabrizio Anfuso, consigliere relatore Gaetano Scaduti, è stato depositato in questi giorni in cancelleria. Il processo d’appello bis era iniziato dopo la sentenza della Corte di Cassazione che aveva annullato con rinvio la prima sentenza d’appello del settembre del 2016, in cui l’ex sottosegretario di Forza Italia venne assolto per le contestazioni successive al 1994. Nel primo processo il gup di Palermo, infatti, lo aveva assolto, dichiarando prescritti gli eventuali reati compiuti in un periodo precedente a quella data, tra cui la compravendita fittizia di un terreno in contrada Zangara, «diretta da Matteo Messina Denaro», come raccontato dal pentito Francesco Geraci. Già nel 1996, durante un processo a Trapani per diffamazione, Geraci raccontava di aver intrattenuto rapporti con D’Alì «il banchiere... forse ora è Onorevole», per ottenere la restituzione in contanti dei pagamenti che aveva ricevuto con degli assegni. Un dettaglio confermato anche dal fratello di Geraci, Tommaso, rispetto alla riconsegna del denaro ad uno dei D’Alì, «uno con la barba che forse fa il senatore».

La Dda di Palermo archiviò l’inchiesta ritenendo di non poter identificare in D’Alì l'uomo indicato dai due fratelli. Nelle motivazioni della sentenza si legge tra l’altro che «D’Alì ha concluso nel 2001 dopo una invero già ventennale disponibilità verso il sodalizio mafioso, un patto politico/mafioso con Cosa nostra in forza del quale il sodalizio gli ha garantito l’appoggio elettorale che ha consentito all’imputato di essere nuovamente eletto al Senato (elezione che poi ha costituito da viatico per l’acquisizione dell’incarico di sottosegretario al ministero dell’Interno)».

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