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Le ombre restano, i conniventi pure

Non ci sono più padrini ma resta sulla piazza chi con loro ha fatto affari, prodotto fortune, costruito carriere. Deve continuare la caccia alla sua rete di silenti sostegni

Messina Denaro nel giorno del suo arresto

È morto un feroce criminale. Ma il sospiro di sollievo all'alba di un piovoso lunedì di fine settembre non è della brava gente, dei retti, degli onesti. Otto mesi sono bastati per sedimentare, nella parte sana della collettività, la consapevolezza della fine di una carriera sanguinaria (oltre che il ragionevole dubbio di una cattura agevolata dall’avanzare della malattia). Che Messina Denaro avrebbe meritatamente concluso la sua guasta vita in galera era una certezza acquisita fin da quel 16 gennaio (un altro lunedì). Ma in questi lunghi – o forse troppo brevi – 252 giorni fra carcere duro e ospedale, a tremare sono stati in realtà in tanti. I collusi e i conniventi, i corrotti e i compromessi. Perché se la stagione delle stragi è stata consegnata agli archivi ormai da trent’anni, la stagione dei misteri e delle ombre è adesso destinata probabilmente a perpetuarsi all'infinito.

Con la scomparsa dell’ultimo dei grandi capi di Cosa nostra cresce d’altro canto il rischio concreto che si possa foraggiare sempre di più la parallela stagione dei sospetti. E dei teoremi. In un pericoloso cortocircuito in cui complottismo, strumentalismo o revisionismo potrebbero finire per influenzare, fino a comprometterlo, il complesso ed efficace lavoro investigativo portato fin qui avanti con straordinari risultati ma non ancora concluso. Al netto di quei beffardi 30 anni da latitante a casa sua. Su cui invece c'è ancora tempo, modo ed esigenza estrema di fare piena luce. Anche se quel «io non mi farò mai pentito» pronunciato davanti ai magistrati riallinea in extremis la figura di quest'ultimo capomafia un po' naif a quella dei vecchi padrini, da Luciano Liggio a Totò Riina a Bernardo Provenzano. Che nella tomba si sono portati un ampio pezzo di storia mai scritta del nostro Paese, dal Dopoguerra in poi. Lo stesso fa u' Siccu, lasciando pendenti troppe domande alle quali forse solo lui poteva rispondere. E invece ha taciuto. Fino alla morte.

E adesso? Deve assolutamente continuare la caccia alla sua rete di silenti sostegni. È perfino probabile che risulti più facile adesso approfittare di un ulteriore vuoto di potere che potrebbe portare a un redde rationem interno alle famiglie. Non temiamo il ritorno alle guerre di mafia degli anni Ottanta, anche perché - un po' per scelta di strategia, molto per necessità dopo i tanti colpi subiti - da tempo le strette di mano hanno sostituito le pistole, l'inchiostro ha preso il posto dell'esplosivo, gli accordi hanno soppiantato gli agguati. Ma che Cosa nostra oggi navighi a vista, tenti invano di riorganizzarsi e non abbia più gerarchie codificate o equilibri di potere ben definiti che la preservino da conflittualità interne, sono elementi noti agli inquirenti e sottolineati dai più attenti analisti. Il che non rende affatto il sopruso mafioso meno vigoroso o pericoloso. Semplicemente lo destruttura in una forma più liquida, magmatica. Torbida, perché penetrante. Non ci sono più padrini in giro, probabilmente. Ma resta sulla piazza chi con i vecchi padrini ha fatto affari, prodotto fortune, costruito carriere. E che a Messina Denaro oggi, come a Riina o Provenzano ieri, deve tanto. A prescindere dal fatto che il boss di Castelvetrano resta comunque una figura borderline, poco allineata a quella dell'iconografia mafiosa vecchio stampo. Non ha designato un erede ai vertici della cosca (che peraltro lui stesso non comandava più da tempo), ma ha badato piuttosto ai propri esclusivi interessi economici. Accumulando un tesoro di cui non si ha ancora traccia a beneficio soprattutto della propria famiglia, quella con la f minuscola, intesa come parenti e affetti più che come organizzazione territoriale secondo lessico mafioso. Una latitanza di lussi e di promiscuità, di beffe e di arroganza, di cene al ristorante e di spesa al supermercato, di selfie e messaggini whatsapp, perfino di partite allo stadio Barbera con tanto di maglia rosanero per occultarsi fra i tifosi del Palermo.

Una figura sprezzante e spietata, che si spera vivamente non venga mitizzata dall'inevitabile fiction-burletta che prima o poi ci aspettiamo a tiro di telecomando.
«Se doveste arrestare tutti quelli con cui ho avuto contatti in questi mesi a Campobello di Mazara, ne dovreste prendere due o tremila», aveva detto col ghigno di una sardonica superbia ai magistrati che lo avevano consegnato alla galera. È la logica atavica dei piccoli pesci: tanti ne sono caduti e tanti probabilmente ne cadranno nella rete di chi ha provato a sgominare il regno di Messina Denaro. Quante volte abbiamo letto, scritto o sentito in questi anni di cerchio che si stringe o di terra bruciata attorno all'inafferrabile latitante. Ma davvero dobbiamo accontentarci di medici accondiscendenti e autisti finti tonti, familiari soggiogati e pavidi conoscenti, un paio di amici di antica data, amanti qua e là, vecchi omertosi, picciotti di strada, malacarne di trincea, politici mediocri, piccoli bottegai e modesti signorotti di periferia? Non si muovono eserciti senza nominare generali, non si costruiscono imperi senza coltivare alte diplomazie. Non si scompare per 30 anni restando a casa propria senza adeguate coperture.

Matteo Messina Denaro è morto e pace all'anima di tutte le sue vittime, così come titolammo in prima pagina sei anni fa all'indomani della morte di Riina. Forse non sapremo mai in maniera compiuta e definitiva se davvero siano finiti a lui i documenti mai cercati nel covo dello stesso Totò corleonese dopo l'arresto, né forse sapremo mai se e come lui possa entrarci con la misteriosa scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino o che ruolo ebbero eventuali eminenze grigie nelle stragi di 30 anni fa, fino ai pantani della presunta trattativa. Non conosceremo mai tutti i segreti che Matteo Messina Denaro si porta nella tomba. Ma il sordo e sordido boato prodotto dai corrotti e clandestini sospiri di sollievo che si sono sollevati dall'alba di ieri - nel Trapanese, in Sicilia, in Italia - deve costituire una traccia verso cui continuare a muovere le forze investigative e repressive dello Stato. Qualunque sia la direzione. Ovunque essa porti. La guerra non è finita. I grandi boss non ci sono più. I loro amici e sodali sono ancora fra noi. Fuori e dentro i Palazzi. E da ieri si sentono più tranquilli. Dobbiamo pure fargli le condoglianze?

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