Prima o poi lo prenderemo: in questa promessa di mettere fine alla latitanza di Matteo Messina Denaro si erano esercitati in tantissimi anni ministri dell’Interno, questori, investigatori, magistrati. L’ultima «primula rossa» di Cosa Nostra, 61 anni, arrestata il 16 gennaio (e deceduta per un tumore il 25 settembre), si era resa irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta proprio trent'anni fa, nel gennaio 1993. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l’immagine giovanile del boss, il suo impero milionario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento, alla fine riducendola ai fedelissimi di Campobello di Mazara. Tra arresti e sequestri in questo modo è stato demolito il mito di un padrino che gestiva tantissimi soldi e un potere che incuteva ancora paura. Soprattutto in quel lembo della provincia di Trapani, fra Castelvetrano, Partanna e Campobello, dove Matteo Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale e dove si era rintanato. Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo ha lasciato dietro di sé non un erede ma solo l’immagine di un assassino sanguinario e stragista che si fingeva anche un playboy con i Ray Ban e le camicie griffate. E dietro questa immagine ormai scolorita una scia di leggende fasulle e di delitti orrendi come quello del figlio del pentito Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido. Lui stesso, del resto, si vantava di avere «ucciso tante persone da riempire un cimitero». Aveva le mani sporche di sangue ma metteva in giro il mito di un grande conquistatore di cuori femminili, patito delle Porsche e dei Rolex d’oro, appassionato di fumetti. Di uno soprattutto: Diabolik, da cui ha preso in prestito il soprannome. Un altro ancora glielo hanno affibbiato i suoi biografi, «'U siccu». O ancora «testa dell’acqua», cioé fonte inesauribile di un fiume sotterraneo. Anche nei soprannomi Matteo Messina Denaro impersonava il doppio volto di un capo capace di ferocia infinita e di coniugare la dimensione tradizionale e familiare della mafia con la sua versione più moderna. Per questo è stato considerato l'erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio, altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. E da allora Diabolik era sempre riuscito, a volte con fortunose acrobazie degne dell’imprendibile personaggio del fumetto, a sfuggire ai blitz. Su di lui era stata posta una taglia da un milione e mezzo, ma per fargli attorno terra bruciata gli investigatori hanno stretto in una tenaglia micidiale la rete dei fiancheggiatori. Neanche i suoi familiari sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote. E proprio da una perquisizione in casa dei familiari sono venuti fuori gli appunti in cui si descriveva la sua malattia oncologica che lo obbligava a cure e chemio. Così, come ha chiarito il procuratore Maurizio De Lucia, i carabinieri e gli inquirenti hanno schedato e setacciato i pazienti di quel tipo. Arrivando alla mattina del 16 gennaio con il blitz nella clinica La Maddalena. Messina Denaro non si è affatto consegnato. Ma la malattia lo ha costretto a venire allo scoperto, a commettere errori. E lo Stato era lì ad aspettarlo. Finalmente.