Tre bambine furono rapite il 21 aprile 1971 a Marsala e poi furono ritrovate morte, una in una scuola abbandonata; le altre due, sorelle, in una ex cava di tufi. Furono vittime di Michele Vinci, ribattezzato poi come il mostro di Marsala. A Ninfa e Virginia Marchese e ad Antonella Valenti quasi 52 anni dopo verrà intitolato un parco giochi. L'intitolazione dello spazio a verde di piazza Caprera che assumerà la denominazione di Parco Giochi Antonella Valenti, Ninfa e Virginia Marchese avverrà oggi alle 19.
Quello che vide le tre bambine come vittime del cosiddetto mostro di Marsala, fu un fatto di cronaca nera che negli anni '70 sconvolse l'intera nazione. Tutto ebbe inizio il 21 ottobre del 1971. Antonella, 9 anni, Ninfa, 7 anni, e Virginia 5 anni, escono di casa dove non torneranno mai più. Le indagini, complesse, piene di colpi di scena, si concluderanno con la confessione di Michele Vinci, zio di Antonella. Le uniche foto delle tre bambine, le ritraggono in bianco e nero, cristallizzate nel loro primo giorno di scuola, col grembiule e il fiocco al collo. Vivevano nelle case popolari dell’Ina, a pochi passi da piazza Caprera, a Marsala. Si tratta di foto realizzate qualche settimana prima di quel tragico 21 ottobre 1971, quando le tre bambine uscirono di casa per non farvi mai più ritorno.
Sono da poco passate le 13.30 e Antonella Valenti sta accompagnando la sorellina Liliana alla scuola elementare Pestalozzi per il turno pomeridiano, con loro anche le cuginette, Ninfa e Virginia Marchese. Liliana entra a scuola, per un ultimo saluto alla sorella, ma nel cortile non c’è più nessuno. Da quel momento delle tre bambine si perdono le tracce. I genitori di Antonella Valenti vivono da un anno in Germania, la piccola vive con il nonno. Ed è lui che dà l’allarme ai carabinieri. Il mattino dopo parte una gigantesca caccia alle bambine diretta dall'allora giudice Cesare Terranova, procuratore della Repubblica di Marsala, al suo primo incarico direttivo. Si battono le campagne attorno a Marsala ma si procede anche verso Castelvetrano, Mazara del Vallo, Campobello di Mazara. Vengono setacciati casolari abbandonati e terreni, cave, pozzi. Alle ricerche partecipano più di 250 volontari, ma le tre bambine sembrano volatilizzate. Sono troppo piccole e già si pensa che qualcuno le abbia portate via. Si iniziano a fare le prime ipotesi: zingari o stranieri impegnati nella tratta delle bianche i più indiziati.
Mentre le ricerche si fanno frenetiche, arriva il primo testimone, è un tedesco, Hans Hoffmann, benzinaio che lavora sulla strada per Mazara che aveva letto della scomparsa sui giornali. Dice che il 21 ottobre ha visto una Fiat 500 di colore blu con a bordo delle bambine che battevano coi pugni sul vetro. È il primo che parla ai carabinieri di una 500 ma non sarà l’ultimo. La pista che sembra a prima vista interessante, viene smontata dal manovale Giuseppe Li Mandri: quella 500 è la sua, quel giorno stava andando all’ospedale a trovare un parente e con lui c’era il figlio che faceva i capricci. Il giudice riconvoca Hoffmann, ma l’uomo era tornato improvvisamente in Germania. Terranova sente allora la moglie di Li Mandri, che però smentisce il marito: nessun parente era all’ospedale il 21 ottobre. Perché l’uomo ha mentito? Una domanda a cui non si darà mai una risposta. Qualche tempo dopo Li Mandri viene trovato morto: ufficialmente è caduto da una impalcatura accidentalmente. Terranova fa passare al setaccio il registro automobilistico. In provincia di Trapani nel 1971 le 500 sono settemila, quelle blu 400. Tra i possessori di uno di quei modelli anche Michele Vinci, zio di Antonella. L’uomo ha un alibi, nel corso delle ricerche appare piuttosto provato. La mattina del 26 ottobre poi, in aperta campagna, all’interno di una scuola abbandonata, un manovale trova il corpicino senza vita di Antonella. Il primo medico che visita il cadavere dice che la bambina ha subito una violenza sessuale «dirompente».
Il giudice Terranova convoca gli indiziati e li sottopone a una visita medica, mentre l’autopsia su Antonella esclude lo stupro. La bambina è rimasta però in vita alcuni giorni dopo il rapimento: il suo carnefice l’ha nutrita con pane e cibo in scatola, poi ha tentato di strangolarla e le ha dato fuoco. La causa della morte è asfissia. Antonella è rimasta soffocata a causa del nastro adesivo che le avvolgeva il corpo e il viso. Le indagini si concentrano su quel nastro adesivo prodotto da una ditta lombarda e che a Marsala lo possiede solo la Cartotecnica San Giovanni, dove lavora lo zio Michele. Terranova fa prelevare l’uomo. Michele Vinci nel corso dell'interrogatorio crolla e ammette tutto: è lui il mostro. Il 9 novembre, 19 giorni dopo la loro scomparsa, Vinci indica dove trovare i corpicini senza vita di Virginia e Ninfa Marchese: sono sul fondo di un pozzo di tufo profondo 30 metri, in aperta campagna. Le due bambine non sono morte subito, sono morte di fame e di freddo. Michele Vinci viene più volte interrogato, nega di aver violentato la nipote, ma racconta di essersene invaghito e di averla rapita per abusarne. Le cugine erano con lei e non ha potuto che portare via anche loro e nasconderle nel pozzo. Nel novembre 1973, innanzi al tribunale di Trapani, inizia il processo. Col tempo, il mostro cambia e ritratta tutte le confessioni, fino ad accusare Franco Nania, fratello del padrone della fabbrica in cui lavorava. Vinci racconta che Nania lo ha costretto a rapire Antonella per punire la mamma di lei, di cui era innamorato ma non corrisposto. Nania viene arrestato, il processo sospeso e le indagini ripartono da zero. Poi, Nania viene scagionato. Le accuse di Vinci non reggono e al nuovo processo, nel maggio 1975, Michele Vinci viene condannato all’ergastolo. Passa un anno e mezzo e c’è un nuovo colpo di scena. Al processo d’Appello, che inizia nel dicembre 1976, Vinci cambia ancora versione: Antonella è stata uccisa perché suo padre, Leonardo Valenti, ha fatto uno sgarro a cosa nostra. L’uomo faceva parte della banda che doveva sequestrare il deputato Salvatore Grillo, ma all'ultimo minuto si era tirato indietro fuggendo in Germania. La nuova versione però non salva Vinci, che il 18 gennaio 1977, a quasi sei anni dal triplice delitto, viene condannato definitivamente. Anche se ad essere condannato è solo Michele Vinci, rimangono numerosi dubbi su tutta la vicenda a cominciare dal fatto che possa aver agito da solo. La verità processuale lo riconosce unico responsabile, anche se l’ergastolo si tramuta in 30 anni di detenzione. Sentenza confermata l’anno dopo in Cassazione. Michele Vinci ha scontato la sua pena ed è andato a vivere in provincia di Viterbo come giostraio.
Caricamento commenti
Commenta la notizia