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"La mia infanzia vissuta in una baracca": giornalista racconta la vita dopo il terremoto del Belice

Francesca Capizzi con i suoi genitori durante la sua infanzia vissuta in una baracca

Sono trascorsi 53 anni da quella terribile notte tra il 14 e 15 gennaio quando la terra tremò e il terremoto distrusse la Valle del Belìce. Quella notte e quei giorni ebbero eco negli anni a venire, scolpiti nella memoria di una bambina che visse buona parte della sua infanzia in una baracca a Menfi. Quella bambina, oggi donna, è la giornalista Francesca Capizzi, che, attraverso la sua testimonianza, racconta le condizioni vissute per decenni dagli abitanti della Valle del Belice, prima nelle tendopoli poi nelle baracche. Storie di vita difficile, ma narrate con la leggerezza di chi a quei tempi era poco più che una bambina. Ecco il suo racconto.

Nel 1968 io non ero ancora nata, ma le conseguenze di quel terribile terremoto le ho vissute ugualmente. Sono nata l’8 settembre del 1981 e ho vissuto in una baracca a Menfi sino all’età di 11 anni. Le baracche erano costruite con il legno o in lamiera, imbottite di lana di vetro e di pannelli. Le tettoie erano tutte di amianto, così come i recipienti d’acqua, dove tutti noi abbiamo bevuto e ci siamo lavati per anni. Credetemi, sono stati gli anni più belli dalla mia vita, ero piccola e non capivo. Per gli adulti vivere in baracca non è stata una passeggiata, ma vi assicuro che per noi bimbi era uno spasso.

Le baracche portavano i nomi dei quartieri. Mio nonno viveva a 'San Michele' e aveva una macelleria, mia nonna aveva un piccolo supermercato e lavoravano tantissimo, un supermercato e una macelleria in una baracca. Strano, vero? No per niente, era la nostra quotidianità.

Io vivevo alle baracche 'Pasotti', ma c’erano altri quartieri. Ogni zona era formata da tante baracche tutte vicine, l’uno con l’altra. Quando in una famiglia si litigava o si gioiva per una partita di calcio, l’altra in automatico sentiva tutto. Eravamo un’unica famiglia.

Ogni pomeriggio passava con il tre ruote Don Pino, che vendeva gelati e tutti noi bimbi lo aspettavamo con gioia. Aveva il fischietto e quando stava per arrivare, tutti ci riunivamo intorno a lui, nella sua mitica moto-ape. I pomeriggi, dopo la scuola, erano un divertimento continuo. Si andava in giro ad esplorare gli spiazzali interni dei quartieri, si girava per le baracche o si andava alla bottega di Don Gino, che per noi era tutto il nostro mondo: caramelle, cioccolatini, vendeva di tutto. Per non parlare dei carnevali. Ci si riuniva in gruppetti e si andava in giro per le baracche, dove all’interno si ballava, c’erano i dj e si mangiava, tutti insieme. Era bellissimo. Vicino alla mia baracca c’era un parrucchiere e anche una scuola di danza. Tutti in baracca.

Il terremoto del ‘68 fu una vera e propria catastrofe che sconvolse la serenità di quei posti per sempre, cancellando definitivamente alcuni paesi. I Comuni di Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Ninfa, Santa Margherita Belice furono scossi irrimediabilmente nella loro vita quotidiana. Una ferita ancora aperta a distanza di più di mezzo secolo. Per decenni gli sfollati furono costretti a vivere e morire nelle tendopoli prima e nelle baraccopoli dopo.

 

 

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