Nuovo colpo alla rete di fiancheggiatori che ha coperto la latitanza di Matteo Messina Denaro. I carabinieri del Ros e quelli del comando provinciale di Trapani e i poliziotti del Servizio centrale operativo hanno arrestato Antonino Luppino e Vincenzo Luppino, figli dell’imprenditore di Campobello di Mazara Giovanni Luppino, l’uomo che faceva da autista al capomafia e che con lui è finito in manette il 16 gennaio di un anno fa. Sono accusati di favoreggiamento e procurata inosservanza di pena aggravati. Carabinieri e poliziotti hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Palermo, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia. L’inchiesta è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, dall’aggiunto Paolo Guido e dai pm Gianluca De Leo e Piero Padova.
Un contributo al mantenimento del comando
I due fratelli sono accusati per favoreggiamento e procurata inosservanza di pena aggravati dall’essere stati commessi al fine di avvantaggiare Cosa Nostra. L’indagine, condotta nell’ambito delle indagini finalizzate a ricostruire la rete di fiancheggiatori che ha sostenuto l’allora latitante Messina Denaro, ha permesso di raccogliere elementi investigativi che conducono a ipotizzare che i due indagati, assieme al padre (attualmente detenuto), «abbiano contribuito con le loro condotte al mantenimento delle funzioni di vertice del capo mafia castelvetranese, fornendogli prolungata e variegata assistenza durante la latitanza e partecipando al riservato sistema di comunicazioni attivato in suo favore». I Luppino, secondo l’accusa avrebbero fornito a Messina Denaro «un aiuto prezioso» per muoversi e spostarsi nel territorio in cui il boss negli ultimi periodi ha vissuto. I due fratelli, dal 2018 al 2022, hanno abitato a pochi metri dall’ultimo covo del padrino a Campobello di Mazara, condividendo col padre informazioni cruciali per la gestione della latitanza del capomafia.
Numerose attività illecite
Gli accertamenti svolti congiuntamente (con il coordinamento di della Dda) dal Ros, dal comando provinciale dei carabinieri di Trapani e dallo Sco della polizia di Stato - corroborati dall’analisi di tabulati telefonici e traffici di celle, dalla visione di immagini di videosorveglianza e dalle evidenze scientifiche genetiche e papillari - hanno consentito di acquisire gravi indizi in merito alle «diversificate attività illecite svolte dai fratelli Luppino al fine di “proteggere” la latitanza del capo mafia trapanese». Sono attualmente in corso delle perquisizioni nella provincia di Trapani, con il supporto di personale dello squadrone eliportato Cacciatori Sicilia» dell’Arma dei carabinieri e dei reparti prevenzione crimine della polizia di Stato. Ad Antonino Luppino era stato comunicato il numero di uno dei cellulari usati dal boss, Vincenzo Luppino sarebbe andato alla clinica La Maddalena, dove il ricercato era in cura per un cancro, quando questi venne operato, per provvedere ai suoi bisogni. E ancora Antonino Luppino, insieme al padre, avrebbe scortato Messina Denaro, dopo le dimissioni dalla casa di cura, l’11 maggio, fino a Campobello e insieme al fratello si sarebbe occupato delle riparazioni della auto, una Giulietta, con la quale il capomafia si spostava. I tre Luppino, poi, avrebbero seguito i lavori di ristrutturazione del covo del latitante e il trasloco dei mobili del boss all’ultimo nascondiglio. Vincenzo avrebbe custodito la vecchia cucina che Messina Denaro aveva deciso di non portare nell’abitazione in cui si era trasferito. Infine, Vincenzo avrebbe prestato al padre il proprio furgone perché scortasse il latitante mentre attraversava in auto Castelvetrano per passare davanti alle abitazioni dei suoi familiari.
La sim attivata dal padre
Nei giorni scorsi la procura di Palermo ha chiesto la condanna a 14 anni e 4 mesi di carcere per Giovanni Luppino, imputato di associazione mafiosa. Il processo si celebra in abbreviato. L’accusa in aula era rappresentata dal pm della Dda Piero Padova. Fu Giovanni Luppino, il 21 gennaio 2021, a fare attivare la sim, rimasta inutilizzata fino all’8 aprile, poi inserita nel cellulare Huawei col quale il boss comunicava durante il ricovero alla clinica La Maddalena. Emerge dall’inchiesta che ha portato all’arresto dei due figli. Il capomafia alle 13.08 dell’8 aprile fa uno squillo ad Antonino Luppino per far sì che memorizzasse il numero. Circostanza che, secondo gli inquirenti, dimostra che il figlio dell’imprenditore era a conoscenza della reale identità di Matteo Messina Denaro.
I viaggi per le cure
Gli investigatori hanno poi ricostruito tutti gli spostamenti dei Luppino in occasione dell’operazione al fegato del boss del 2021, a La Maddalena. Il 2 maggio Giovanni Luppino porta il padrino, che usava l’alias Andrea Bonafede, alla casa di cura per tornare poi in paese. Il 4 maggio il boss viene operato. Quel giorno Vincenzo Luppino parte da Campobello alle 9.30 e arriva in clinica alle 12. Ritornerà a Campobello nel primo pomeriggio. Con quella trasferta, secondo i pm, l’indagato aveva voluto trovarsi a «La Maddalena» nell’eventualità di dare aiuto al boss dopo l’uscita dalla sala operatoria. Una settimana dopo, l’11 maggio, Messina Denaro viene dimesso e portato al covo da Giovanni e Antonino Luppino. Antonino e Vincenzo dunque si sono occupati. «alternativamente ed in piena sintonia, di offrire decisivo aiuto e sostegno a al padrino nei difficili spostamenti che egli ha dovuto gestire in occasione dell’intervento chirurgico», dice il gip che ha disposto l’arresto di entrambi.
La Giulietta del boss
Altra scoperta degli inquirenti riguarda la Giulietta di Messina Denaro, parcheggiata in uno spazio recintato davanti casa di Vincenzo Luppino. Il fratello Antonino aveva le chiavi dell’area, tanto che sarà lui a fare entrare gli investigatori dopo l’arresto del boss. Prima della cattura, Luppino padre avrebbe inviato al figlio una foto della macchina del capomafia via whatsapp. Per i pm col messaggio l’imprenditore arebbe chiesto al figlio di occuparsi di alcuni lavoretti da fare al veicolo. Nella foto Antonino Luppino davanti alla sua casa, a Campobello di Mazara, durante una perquisizione