Per vent’anni ha portato avanti una battaglia a colpi di carte bollate, tra sorrisi ironici e umiliazioni, aule giudiziarie e incontri con psicologi. Adesso il tribunale di Trapani le ha finalmente riconosciuto il diritto di cambiare nome e identità di genere all’anagrafe senza alcun intervento chirurgico. Dal 6 luglio si chiama Emanuela, anche se fisicamente è un uomo. Non intende infatti sottoporsi ad alcuna operazione, neanche in futuro, né a cure ormonali, Ma non per questo dovrà rinunciare al suo sentirsi donna. Un caso unico in Italia, reso possibile da un principio estrapolato da una sentenza della Corte di Cassazione che nel 2015 ha consentito a un’altra transgender di legittimarsi come donna prima ancora dell’operazione che era già pianificata.
Emanuela, 53 anni, nata nel borgo medievale di Erice, spiega che a 5 anni sentiva già dentro di lei «un universo femminile. Perché quando si è transgender il bambino, o la bambina, percepisce la sua identità nell’immediato». Una ventina d’anni fa ha iniziato il classico percorso per la riassegnazione sessuale per via ormonale e chirurgica, che per la legge è un passaggio obbligatorio per richiedere il cambiamento all’anagrafe e sui documenti. «Ma quando i medici mi spiegarono le conseguenze, vista l’alta invasività del trattamento, ho scelto di non farlo - racconta - e di convivere in armonia con il mio corpo. Non avere l’organo sessuale femminile non compromette il modo in cui mi percepisco, le mie sembianze non offuscano la mia identità femminile».
Ad assistere Emanuela in questa lunga battaglia giudiziaria per l’affermazione dei propri diritti è stato l’avvocato Marcello Mione: «Il principio espresso dalla Cassazione e a cui abbiamo fatto fede è che l’intervento chirurgico modificativo dei caratteri sessuali non incide sulla fondatezza della richiesta di rettifica anagrafica, con la conseguenza che, nei casi in cui l’identità di genere sia frutto di un processo individuale serio e univoco, l’organo sessuale primario non determina necessariamente la percezione di sé».
Una interpretazione, poi accolta dai giudici, che ha dato una speranza ad Emanuela: «Ho sempre sentito l’esigenza di un riconoscimento sociale. Le parole dell’avvocato mi hanno dato la forza per intraprendere questo percorso che, comunque, non si è rivelato privo di ostacoli. A tratti mi sono sentita umiliata: come se una persona che si definisce etero venisse sottoposta a una perizia psichiatrica per verificare che lo è».
Oggi Emanuela è finalmente una donna felice. «Spero che la mia esperienza - afferma - possa essere di aiuto per altre persone nelle mie stesse condizioni. Noi transgender siamo viste come alieni, quando basterebbe conoscerci per capire che siamo persone come tutte».
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