Era la mattina del 14 gennaio 1968, era domenica. A Calatafimi in Piazza Pietro Nocito il consigliere comunale d'opposizione Nino Colombo, arringava la folla di uomini che intabbarrati per il freddo assistevano al comizio, raccontando loro l'inefficienza del consiglio comunale dell'epoca. Il consigliere Colombo ad un certo punto rivolgendosi alla gente, tra di loro in quel momento vi erano tanti della maggioranza, volendo scuotere le coscienze di tutti, alzando il tono della voce gridò “Calatafimi Svegliati!”. Chi era presente a quel comizio, oggi avanti con gli anni, ancora ricorda e non senza un brivido che gli percorre il corpo, che in quel preciso momento la terrà iniziò a tremare. Fu praticamente la prima delle scosse sismiche che percorsero in lungo e in largo la Valle del Belice colpendola violentemente, ma soprattutto provocando morti, feriti e danni irreparabili. “Si, ricorda bene. Una manifestazione politica che finì con quella frase ormai storica – dice oggi Angelo Alonzo per anni consigliere comunale del PCI. Calatafimi comunque non si svegliò mai più cadendo non già in sonno profondo ma vittima della perdita del raziocinio. Tra un coltivatore diretto, un operaio della forestale, un manovale ferroviere ed altri pseudo acculturati a perdere. Eravamo dodicimila, tutti giovani e forti e piano piano siamo morti!” Siamo a metà mattina e in alcuni Paesi del Belice ci sono le elezioni amministrative. La gente è andata prima a messa, poi si reca ai seggi elettorali e fa molto freddo. Una domenica di gennaio, fredda e pungente, e benché il sole ha fatto capolino tra le nuvole, la neve ancora imbianca le cime più alte che sovrastano la Valle. A pochi chilometri Gibellina è tutta un gran fermento, si vota per il rinnovo del consiglio comunale. Per le strade la gente commenta liste e candidati. Nomi conosciuti in paese, già visti, le ultime elezioni si erano svolte il 22 novembre del 1964. I seggi sono aperti già dalla mattina. Aggrappata ad uno dei colli della Valle c’è Salaparuta, solitaria anche lei infreddolita. È un groviglio di case, piccole e grandi. Come in tutti i paesini del Belice si snoda su un asse viario centrale. In paese la vita si svolge normalmente. Poco distante Santa Ninfa e Partanna. In tutta la Valle, da Calatafimi a Montevago, da Vita a Santa Margherita Belice, da Menfi a Contessa Entellina a Grisì a Camporeale e poi via via in tutti i comuni del Belice si respira aria di festa. La Chiesa celebra la giornata dedicata alla famiglia. Lontano dalle case, in mezzo alle campagne però qualcosa sta accadendo. Di qua e di là ci sono fenditure che si aprono nel terreno, escono soffioni di gas, qualcuno sente puzza di zolfo. Sono le 13.29 del 14 gennaio 1968. Passano tre quarti d’ora, alle 14.15, si replica, sesto grado scala Mercalli. Ore 16.48, ancora una nuova scossa, settimo grado Mercalli. Inizia il dramma. Le case di tutta la Valle percorsa dai tremori, diventano inagibili, la gente scappa via. Intanto il buio prende il sopravvento e con esso la paura. La paura di non rivedere il nuovo giorno. Inizierà così la notte più lunga. Ma il dramma in quelle ore riguarda solo il Belice, il terrore che ha preso quella gente sembra non interessi a nessuno. E’ da allora che questa gente è abituata a non aspettare gli altri, a sbracciarsi e a darsi da fare. Alcuni fanno ritorno nelle case, chi per prendere qualcosa, altri per restarci. Per sempre. Sono le 3.01 è la fine. Onde sismiche di magnitudo 6.0 e con effetti nell’epicentro del nono grado Mercalli sconquassano violentemente la Valle. Il Belice è cancellato. Le case ad un certo punto sembrano unirsi l'una con l'altra nella strada. La luce è andata via. Si scappa dai letti in pigiama. Le coperte, i calzini di lana, gli scialli larghi e spesso neri. A Calatafimi per esempio il primo posto di ristoro è dietro la Chiesa Nuova. La gente si ammassa si fanno i falò con la legna, la temperatura è gelida. Si prega. Chi c'era non ricorda più quante Ave Maria e Padre Nostro ha recitato quella notte lunghissima, dove ci si abbraccia ad ogni scossa. Le prime colonne di soccorsi che giungeranno quando la giornata di lunedì si appresta al nuovo imbrunire troveranno le stradine o trazzere stravolte, bloccate dalle frane. A 55 anni da quel terremoto se ti capita di visitare molti di quei posti diventati ora simbolo di riscatto per quelle popolazioni, si possono ancora sentire i pianti, le donne che si disperano, gli uomini che a mani nude scavano tra le macerie sperando di potere riabbracciare i genitori, le mogli, i figli. Senti anche il rumore assordante dei muri che si sgretolano come quando la neve si scioglie al sole e svanisce, mentre la terra continua a tremare. Ad accogliere quei disperati, quasi ombre, sono notti fredde. I morti viventi vagano al buio cercando riparo sicuro da quella tragedia. E ancora si vedono quelle persone che smarrite si danno una mano. Scavano, scavano nel tentativo disperato di cogliere anche un piccolo anelito di vita. Infreddolite, gli occhi smarriti, come chi ha avuto rubata l’anima. I soccorsi tardano ad arrivare. Le notizie sono confuse, molti centri rimangono isolati a causa di frane e smottamenti delle strade e sono raggiungibili solo in elicottero. I pochi volontari che in quelle prime ore giungono nei paesi colpiti, sono costretti a fare ore di marcia a piedi. La terra trema ancora per altre 32 volte. Un terremoto questo di 55 anni fa che nessuno ha mai dimenticato perchè ancora è una ferita aperta.