Il tesoro di Becchina: oltre alle case nel palazzo antico, 38 fabbricati, 4 automezzi e 24 terreni
A cinque anni dal sequestro arriva la definitiva confisca dei beni di Gianfranco Becchina, mercante d’arte internazionale di Castelvetrano. E con la confisca, Becchina dovrà lasciare la dimora che si trova all’interno del settecentesco palazzo dei Principi Tagliavia Aragona Pignatelli, dove vive e lavora con la famiglia, perché rientra tra i beni confiscati. Complessivamente ammonta a circa 10 milioni di euro il patrimonio che gli investigatori della Dia hanno confiscato al poliedrico imprenditore. Oltre agli appartamenti e agli uffici nel settecentesco palazzo dei Principi Tagliavia Aragona Pignatelli di Castelvetrano, sono state confiscate due aziende, 38 fabbricati, 4 automezzi e 24 terreni. Becchina era noto anche per le molteplici attività. È stato proprietario di aziende che vendevano cemento, generi alimentari e olio d’oliva. Un patrimonio già sequestrato nel 2017. Le indagini di allora della Dia portarono i sigilli ad una serie di società, una risultava proprietaria di un’ala dell’ex castello «Bellumvider», realizzato nel 1239 per accogliere Federico II, poi diventato il Palazzo ducale dei principi Pignatelli Aragona Cortes Tagliavia, uno dei palazzi simbolo del centro storico di Castelvetrano. Quel decreto firmato dalla sezione Misure di prevenzione del tribunale di Trapani ripercorreva trent’anni di indagini nei confronti di Becchina. Indagini che sembravano chiuse con una sentenza che dichiarava la prescrizione su tanti traffici internazionali di reperti archeologici, ma riaperte dopo le dichiarazioni di Giuseppe Grigoli, ex patron di Despar in Sicilia, condannato per essere stato il braccio imprenditoriale del latitante Matteo Messina Denaro. Grigoli raccontò ai pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo di avere ricevuto delle buste piene di soldi da Becchina, fra il 1999 e il 2006, buste che aveva il compito di consegnare a un tramite d’eccezione, Vincenzo Panicola, cognato del superlatitante. Alcuni pentiti nel tempo hanno parlato del legame fra Becchina e Matteo Messina Denaro: Rosario Spatola, Vincenzo Calcara, Angelo Siino, fino a Giovanni Brusca, e del legame tra il mercante d’arte e il padre del latitante, don Ciccio Messina Denaro. Per i magistrati, coordinati dal procuratore aggiunto Marzia Sabella, la ricchezza accumulata dal settantottenne mercante d’arte, indiziato di legami con le cosche mafiose, deriva dal commercio illegale di reperti archeologici. Tesi confermata dai giudici della sezione misure di prevenzione che scrivono: «Per oltre un trentennio Becchina avrebbe accumulato ricchezze con i proventi del traffico internazionale di reperti, molti dei quali clandestinamente trafugati nel più importante sito archeologico di Selinunte da tombaroli verosimilmente al servizio di Cosa nostra. Emblematico è risultato il ruolo del mercante d’arte nella custodia di migliaia di reperti archeologici risultati provenienti da furti, scavi clandestini e depredazioni di siti, stipati in cinque magazzini individuati a seguito di rogatoria internazionale nella città elvetica di Basilea» dove Gianfranco Becchina aveva aperto una ditta, la «Palladion Antike Kunst», per il commercio delle opere. A gestire le attività illegali legate agli scavi clandestini ci sarebbe stato l’anziano patriarca mafioso Francesco Messina Denaro, padre del latitante Matteo. E ci sarebbe stato proprio don Ciccio Messina Denaro dietro il furto dell’Efebo di Selinunte, statuetta di grandissimo valore storico archeologico trafugata negli anni Cinquanta. I suoi traffici illeciti sono stati attestati in una sentenza del Tribunale di Roma del 2011, mentre i legami con la mafia sono emersi nell’indagine patrimoniale nei confronti dell’imprenditore Rosario Cascio, che ha portato alla confisca della Atlas cementi srl, costituita da Becchina nel 1987 e della quale Cascio era entrato a far parte nel 1991.