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Pescatori di Mazara sequestrati in Libia, la famiglia spera riabbracciarli per Natale

Una foto della manifestazione per la liberazione dei pescatori di Mazara

Le intese per la risoluzione della crisi libica e l’arrivo delle festività natalizie potrebbero accelerare le procedure per il rilascio dei 18 pescatori bloccati in Libia dal primo settembre. Sono trascorsi 96 giorni dal sequestro dei due pescherecci Antartide e Medinea, fermati a 38 miglia dalle coste libiche e da allora ormeggiati nel porto di Bengasi su decisione delle milizie fedeli al generale Khalifa Haftar. «Oggi non è il 5 dicembre, ma è il primo settembre, siamo rimasti fermi al momento del sequestro», ha detto Rosaria Giacalone, moglie di uno dei 18 pescatori, che ieri ha partecipato ad una manifestazione organizzata dalla marineria di Mazara del Vallo, con i pescherecci in sosta per il fermo biologico a suonare le sirene. Un gesto rilanciato, in segno di solidarietà, nei principali porti siciliani.

L’accusa avanzata dalle autorità libiche è di aver violato le acque territoriali libiche, pescando all’interno di quella che ritengono essere un’area di loro pertinenza, in base ad una convenzione che prevede l’estensione della Zee (zona economica esclusiva) da 12 a 74 miglia. Nei giorni seguenti al sequestro le milizie di Haftar hanno contestato anche il traffico di droga, come documentato da alcune fotografie pubblicate in esclusiva da AGI in cui si vedono dei panetti posizionati sulla banchina del porto di Bengasi, con il peschereccio Medinea sullo sfondo.

Inoltre nel corso delle trattative hanno avanzato la richiesta di uno scambio di prigionieri, chiedendo l’estradizione di 4 libici condannati in Italia come scafisti di una traversata in cui morirono 49 migranti. Lo scorso 11 novembre i familiari hanno potuto parlare con i pescatori, nel corso dell’unica telefonata collettiva organizzata dalla Farnesina. Durante la conversazione però non è stato concesso alcun colloquio ai familiari dei marittimi stranieri. «La nostra richiesta è sempre la stessa: rivogliamo a casa i nostri familiari. Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo, ma ancora non è cambiato nulla, cos'altro dobbiamo fare? La telefonata che ci hanno concesso testimonia che sono ancora tutti vivi, ma non vuol dire che sono in buone condizioni», continua Cristina Amabilino.

«Nelle prime settimane ci hanno chiesto silenzio e abbiamo evitato di alzare ogni polverone, ma adesso siamo disposti a tuti - dice Marika Calandrino, moglie di un altro dei marittimi in Libia - aspettiamo la telefonata giusta da un momento all’altro. Non sappiamo più cosa dire. Stanno trattando i nostri pescatori come dei terroristi, umiliati per aver provato a portare un pezzo di pane a casa».

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