Mafia, gli ordini di Matteo Messina Denaro attraverso i pizzini: svelati affari e complici del superlatitante
Gli interessi economici di Matteo Messina Denaro ma anche i rapporti con le cosche trapanesi sono stati svelati nell'indagine della Dda di Palermo che ha portato a 2 arresti e che vede indagate 15 persone. Un ruolo fondamentale nel sistema che fa capo al superlatitante sarebbe stato svolto da Giuseppe Calcagno, 46 anni, e Marco Manzo, 55 anni, entrambi arrestati. Calcagno, in particolare, si occupava della raccolta e distribuzione dei "pizzini" con i quali Messina Denaro faceva arrivare ai suoi uomini gli ordini sulle operazioni da promuovere: soprattutto intimidazioni che servivano a mettere le mani su appezzamenti di terreno e a imporre decisioni per favorire gli "amici". Il metodo dei "pizzini", inventato da Bernardo Provenzano, e il linguaggio arcaico e allusivo adoperato nelle comunicazioni tra boss e gregari contrastano con l'immagine del boss moderno e spregiudicato che Messina Denaro si è costruito nella sua lunga latitanza. Nel corso di incontri riservati e attraverso lo scambio di "pizzini" si decidevano estorsioni, la compravendita di fondi agricoli e la gestione di lavori pubblici. Calcagno è descritto come una figura centrale nel "sistema" del padrino. Il suo tasso criminale viene rapportato con la sua vicinanza con il boss Vito Gondola, l'anziano capo del mandamento di Mazara del Vallo morto tre anni fa. Gondola era al centro di una rete di gruppi mafiosi e di "famiglie" che comprendeva mezza provincia di Trapani. GLI INDAGATI. I 15 indagati devono rispondere, a vario titolo, dei reati di associazione mafiosa, estorsione, detenzione di armi e favoreggiamento della latitanza del boss mafioso. L'indagine, denominata "Ermes Fase 3", ha svelato che gli indagati, collegati ai mandamenti mafiosi di Mazara del vallo e Castelvetrano, si sarebbero adoperati per garantire gli interessi economici, il controllo del territorio e le attività produttive della cosca guidata dal superlatitante Matteo Messina Denaro. Le attività investigative hanno fatto luce sugli interessi economici e i rapporti fra gli affiliati al mandamento mafioso di Mazara del Vallo e altri appartenenti alle famiglie di Marsala, Campobello di Mazara e Castelvetrano. L'indagine ha dimostrato anche l'intestazione fittizia di beni riconducibili a mafiosi e l'intervento dell'organizzazione per risolvere questioni economiche fra soggetti vicini alle "famiglie". Gli investigatori hanno accertato in particolare che le decisioni in merito ad alcune estorsioni venivano assunte su indicazione diretta di Matteo Messina Denaro. Dalle indagini è emerso inoltre che alcuni degli indagati sono intervenuti nella risoluzione dei conflitti interni alla cosca e hanno partecipato a incontri riservati con altri esponenti di vertice delle famiglie mafiose. Sono state documentate le pressioni estorsive esercitate su un agricoltore marsalese, al fine di costringerlo a cedere un appezzamento di terreno, che invece avrebbe voluto acquistare per sè. Le indagini hanno fatto luce anche sui contrasti fra uno degli indagati mafiosi e alcuni imprenditori agricoli e allevatori e sugli incontri tra mafiosi finalizzati a ricercare una soluzione. L'intervento di "cosa nostra" era essenziale anche per risolvere dissidi per l'utilizzo di alcuni fondi agricoli e per il pascolo nelle campagne di Castelvetrano. Attraverso alcune intercettazioni è stato infine scoperto anche un tentativo di estorsione nei confronti degli eredi del defunto boss mafioso di Campobello di Mazara, affinchè cedessero la proprietà di un vasto appezzamento di terreno appartenuto al boss Salvatore Riina. Le minacce dalla cosca mafiosa furono avallate anche da una lettera intimidatoria attribuita al latitante Matteo Messina Denaro, risalente al 2013.